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Visco: “Crisi delle banche è campanello d’allarme: negli Usa decisioni rapide, difficile in Europa”


La crisi di Credit Suisse e Svb di questi giorni, rappresenta “un campanello di allarme” per le autorità di vigilanza europee e la loro gestione delle crisi.

Lo ha detto il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco in audizione alla commissione finanze della Camera tornando a chiedere uno strumento in Europa per la gestione rapida delle crisi degli istituti medi e piccoli, ed evitare così “problemi che si accumulano nel tempo”.

Visco ha sottolineato come nelle azioni delle autorità Usa e svizzere il “punto fondamentale era evitare l’uscita disordinata dal mercato e una disruption che, a catena poteva compromettere l’intero sistema”.  

“La vigilanza ha avuto difetti ma sono state prese decisioni rapide, specie negli Usa” e “credo che se noi in Europa avessimo una crisi” per “le piccole e medie banche non avremmo uno strumento di intervento immediato” come “dico da anni”, ha aggiunto Visco,  secondo cui i casi di Credit Suisse “sono una lezione importante.

Credit Suisse, la politica processa i top manager: “Restituite i bonus”

“Incertezza è ancora alta”

Sul futuro della politica monetaria “non mi pronuncio, si fa meeting by meeting su base dei dati disponibili.

Incertezza è alta e raddoppiata dalle incertezze finanziarie e credo che la prudenza e l’attenzione alla sequenza e alle dimensioni degli aumenti tassi sia da mantenere”, ha detto Visco precisando che “non si possono fare previsioni anche nel giro di poche settimane”.

“Se il prezzo del gas rimane su questi livelli le cose anche a livello di inflazione vanno nella direzione giusta”

“Banche non abusino di aumento dei tassi”

Quindi Visco ha rivolto un invito alle anche banche. L’aumento dei tassi di interesse e l’effetto sui mutui, ha sottolineato il governatore, impone che ci sia “correttezza e trasparenza e bisogna non abusare”.

Secondo Visco  l’aumento dei tassi, “dopo effetti molto negativi” nell’era dei tassi zero, ora permette alle banche di “iniziare a mettere a posto i margini di interesse e, su quella base, avere più tranquillità nei loro bilanci”.

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“Tassi, liquidità, inflazione: è come nel 1929”: la finanza dopo Credit Suisse


Un nuovo 2008? Piuttosto un nuovo 1929“: ecco cosa può rischiare il sistema finanziario internazionale di fronte alle falle di sistema rese palesi dal crac di Svb negli Usa e dalla crisi di Credit SuisseMassimo Amato, economista e docente di Storia economica e Storia del pensiero economico all’Università Bocconi di Milano, commenta le prospettive globali del sistema economico-finanziario.

Nel 2007-2008 non ci fu alcun rialzo sistematico dei tassi”, commenta Amato, tra gli economisti più attenti ai problemi strutturali della finanza nel panorama italiano e tra i teorizzatori dell’Agenzia Europea del Debito.

Nel 1928, un anno prima dello scoppio della Grande Depressione, negli Stati Uniti la stretta monetaria sui tassi si abbatté su mercati certo iper-liquidi ma a causa di un’elevatissima leva finanziaria. Una situazione molto simile a quella odierna”.

La svolta nelle politiche monetarie dopo il lungo decennio di politiche di quantitative easing globali ha prodotto problematiche strutturali anche perché “c’è ancora una diffusa ed erronea percezione che la trasmissione della politica monetaria all’economia reale sia neutra e senza scossoni”.

Ma così non è. I mercati reagiscono in forma umorale e aspettative volatili alle decisioni delle banche centrali e la finanza non è un territorio piatto ma un terreno di trasmissione delle politiche economiche e uno spazio di generazione di investimenti, risparmi, aspettative, strategie.

Risulta necessario, nota Amato, “che la stabilità finanziaria sia perseguita come bene pubblico, anche a costo di impattare sugli utili a breve termine degli operatori, e soprattutto tenendo conto delle effettive modalità di funzionamento dei mercati, che spesso divergono dalle semplificazioni dei modelli macroeconomici. La finanza impatta sulle politiche macro, e viceversa, e spesso in maniera imprevedibile”.

I decisori spesso si trovano di fronte al dilemma, già sottolineato dall’ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale Olivier Blanchard, secondo cui chi ha sott’occhio i dati “micro” si perde in larga parte la vista sulla politica macroeconomica, e viceversa.

Questo però, a detta di Amato, non giustifica “casi incredibili” come quello del salvataggio di Credit Suisse, a detta del docente della Bocconi “un caso di abiura disinvolta dei principi liberali che dovrebbero a detta di tutti gli operatori governare i mercati”. Verrebbe da dire, parafrasando l’economista Mario Seminerio, che così come non esistono atei nelle trincee non esistono liberali di fronte alle crisi di sistema della finanza.

Ma Credit Suisse è un caso che spicca perché è inconcepibile l’idea di salvare una banca facendo pagare gli obbligazionisti prima degli azionisti che detengono il capitale di rischio”.

La fusione Credit Suisse e Ubs ha creato tre problemi

La crisi aperta dalle diverse politiche economiche e monetarie condotte rispetto al passato, per Amato, crea una triplice problematica: “in primo luogo si crea questa pericolosa inversione nelle priorità che subordina gli obbligazionisti agli azionisti, alla faccia di ogni principio liberale o di concorrenza; in secondo luogo, tutto questo è avvenuto con la benedizione della Banca nazionale svizzera chiamata sulla carta a supervisionare il corretto funzionamento dei mercati; terzo punto, la risoluzione della crisi del Credit Suisse ha creato un problema notevole perché è tutto da vedere se fusioni come quella tra Credit Suisse e Ubs faranno bene al mercato”.

Chi vigilerà, si chiede Amato, di fronte a un colosso capace di avere un tale potere di mercato, anche nel settore del credito?

Il rischio del possibile azzardo morale

Si crea poi un problema strutturale, ovvero capire che cosa siano effettivamente ad oggi le banche. “Innanzitutto, nota Amato, passa il principio secondo cui le banche non devono essere fatte fallire aprendo al possibile azzardo morale” da parte dei decisori finanziari.

Inoltre, bisogna capire “se nella concezione degli operatori le banche debbano essere trattate come imprese come tutte le altre o se si stia creando quella che Martin Wolff sul Financial Times ha definito una potenziale grande contraddizione tra le banche intese come imprese e le banche chiamate a funzionare come utilities”.

Il 2023 come novello 1929, perlomeno in potenza, porta dunque con sé gli spettri recessivi di una crisi bancaria strutturale.

A cui si aggiunge una minaccia ereditata dalle politiche monetarie di cui si è parlato: l’idea di “curare in forma monetaria un’inflazione complessa nella sua genesi” e che anche il Premio Nobel Joseph Stiglitz ha definito come generata in larga parte da cause non monetarie. “Mi chiedo”, chiosa Amato, “perché la Federal Reserve sia intervenuta così aggressivamente per raffreddare una domanda elevata la cui crescita era stata spinta dalla crescita dei salari”.

Ed è quantomeno bizzarro un sistema in cui, nota Amato, “ci si proclama fautori del mercato, ma quando il mercato del lavoro premia i salari secondo un meccanismo di domanda e offerta una banca centrale si muove per calmierare la crescita, ma non avviene lo stesso per gli extraprofitti delle aziende, molto spesso dovuti proprio all’inflazione da costi e non da salari.

A mio avviso”, affonda l’economista, “questa è una scelta di classe, o quantomeno una scelta che premia alcuni interessi contro altri”.

L’Europa si trova sotto scacco

Le mosse della Fed hanno agito per trascinamento sulle priorità della Banca centrale europea. E se “da un lato era comprensibile che in parte l’Eurotower seguisse la Fed, dall’altro è desolante notare che la Bce non ha una vera autonomia di politica monetaria. L’Europa si è fatta del male da sola” e di fronte ai montanti rischi recessivi “ha una dipendenza eccessiva dalle decisioni americane sui tassi”. In sostanza è “l’Europa che si trova sotto scacco. Da un lato, per fortuna, con le regole di vigilanza di Basilea applicate fino in fondo le banche comunitarie sembrano più resilienti di quelle Usa o Svizzera; dall’altro, esse sono piene di titoli di Stato i cui rendimenti potrebbero divergere notevolmente in caso di ulteriori strette sui tassi”.

Il dilemma della Bce tra tassi e spread

E in quest’ottica ciò che l’Europa deve guardare con maggiore attenzione è proprio “una crisi di stabilità che porti la Bce tra la Scilla dell’inseguimento dei rialzi dei tassi decisi negli Usa e la Cariddi di spread più alti tra i debiti sovrani.

Un problema amplificato dal fatto che il Tpi attivato dalla Bce”, il famoso “scudo anti-spread”, ha regole d’ingaggio assai aleatorie e per ora non certe. Insomma, un quadro tutt’altro che limpido.

La recessione di fronte a un peggioramento del quadro macroeconomico seguirebbe a cascata, ma è la struttura del sistema finanziario a essere messa in discussione alla vigilia di quello che potrebbe diventare, più che un nuovo 2008, un nuovo 1929.

Il lato oscuro del boom del fotovoltaico: «Se continuiamo così la rete non può reggere»


La corsa all’energia pulita soffrirebbe di miopia, parola degli addetti ai lavori che non nascondono una certa preoccupazione

Poca pioggia, poca neve. Se a questo ci si aggiunge la crisi energetica internazionale (fortunatamente non ancora palesatasi in maniera grave) la “fame” di energia nazionale non può che accelerare la spinta verso le tanto nominate rinnovabili. Ma c’è un ma.

Se l’eolico è ancora poco percorribile, l’interesse di politica, aziende e privati si è rivolto verso il più economico fotovoltaico. Ed ecco arrivare i sussidi e apparire su tetti e facciate i caratteristici pannelli. Anche perché, pure in Ticino, il prezzi di reimmissione nella rete dell’elettricità prodotta con il solare non sono mai stati così appetitosi.

Nell’ultimo anno, calcola la Nzz, sono stati installati il 50% in più di ricettori fotovoltaici e il totale della produzione nazionale si aggira attorno all’8%.

Il piano vuole che entro il 2050 il sole possa arrivare a fornirci il doppio dell’energia che ci danno oggi le centrali nucleari.

Il problema è che, ora come ora, la rete svizzera sarebbe incapace di gestire un carico del genere vista anche la natura particolare e decentralizzata del fotovoltaico rischiando un sovraccarico durante i mesi estivi, durante i quali la produzione va in picco.

Si parla di un investimento di decine di miliardi di franchi per ampliare l’attuale produzione «del 300 o del 400%», spiega l’associazione Smart Grid Schweiz, «per un tornaconto modesto».

Già perché se tutti producono tanto, i prezzi scendono in picchiata e non trovano acquirenti, anche sul mercato internazionale. E stoccare l’elettricità, si sa, è impossibile.

«La politica dovrebbe capire che non basta produrre elettricità ma piuttosto è importante che sia disponibile quando serve», spiega al quotidiano zurighese Urs Meyer, vicedirettore dell’azienda elettrica della Svizzera centrale CKW che tira una stoccata alla campagna di risparmio varata per l’inverno dal Consiglio Federale, definendola «eccessivamente semplicistica». 

Per lui, inoltre, sarebbe da introdurre una quota fissa (dal 70% al 50%) per le immissioni fotovoltaiche e, per quanto guarda le quote a pannelli di privati e aziende, dovrebbero essere erogate «esclusivamente se l’elettricità viene prodotta durante i mesi invernali».  

Il dibattito politico, in ogni caso, è assolutamente apertissimo con diverse discussioni importanti in Parlamento questo autunno riguardo alle quote e alla strategia d’approvvigionamento. Insomma, il futuro energetico svizzero è ancora tutto da scrivere.

Crisi delle banche, cosa rischiano i correntisti italiani?


Per le banche italiane il 2022 è stato un anno da record, con utili in crescita spinti dal vento del rialzo dei tassi e dopo un triage approfondito per liberarsi dai fardelli dei bad credit, i crediti tossici.

Nell’arco di pochi giorni l’Eden ha cominciato a scricchiolare, ma quanto c’è di vero negli appelli catastrofistici lanciati qua e là dai sedicenti esperti che hanno procurato allarmi al limite del cialtronesco? Poco niente, e vediamo perché. I correntisti italiani non corrono rischi.

Silicon Valley Bank e Credit Suisse

Lo scorso 10 marzo Silicon Valley Bank è precipitata ed è partita la paura del contagio che ha invaso anche l’Europa, andando a causare perdite del 7,11% sullo Stoxx, indice di riferimento dei titoli europei.

Mentre l’isteria era ancora alle stelle Credit Suisse, secondo istituto bancario svizzero (che naviga in cattive acque da tempo immemore), ha alimentato il fuoco con le voci di un imminente tracollo.

Nel caso dell’istituto elvetico la Banca nazionale svizzera ha vestito i panni del pompiere versando la liquidità necessaria a placare gli animi.

Nonostante questi due eventi siano stati correlati uno all’altro in realtà sono diversi e, soprattutto, non hanno niente a che vedere con le banche italiane.

La crisi delle banche

Le banche italiane non hanno nulla a che vedere con Credit Suisse e neppure con il capitale a rischio nelle Startup, settore su cui invece si concentrava Silicon Valley Bank.

Le indicazioni suggeriscono che anche il 2023 per le banche italiane sarà un anno di crescita, con redditività al rialzo e con un costo irrisorio della raccolta di fondi.

Tutto ciò però non è bastato, in un primo momento, a non fare perdere i nervi agli investitori e l’indice Ftse Italia banche ha perso il 17% in poche sedute, un andamento al ribasso che si è verificato anche sull’Euro Stoxx 600 (-16%) e a Wall Street, dove il Dow Jones banche americane ha perso il 21%.

Un allineamento anche in questo caso statistico, perché di natura diversa. Da un canto gli investitori si sono accorti che l’intero comparto bancario stava sovraperformando e quindi si sono apprestati a vendere finché la situazione era favorevole (questo non vuole dire che non possa continuare a esserlo) e, dall’altro lato, sono subentrate le logiche dei Btp collegate alle politiche economiche della Banca centrale europea (Bce), perché ogni volta che i tassi direttori vengono alzati altrettanto fanno i rendimenti, ma il loro valore si deprezza.

La questione Btp

Il passo falso fatto da Silicon Valley Bank è stato proprio quello di cedere i buoni del Tesoro americano per alimentare le richieste di prelievo di fondi dei propri clienti.

Durante l’autunno del 2022 l’Autorità bancaria europea (Eba) ha simulato la vendita dei bond da parte delle banche europee, stimando perdite capaci di erodere in media il 5% del patrimonio di vigilanza, ossia la quantità di capitale che ogni istituto bancario deve avere per soddisfare le norme imposte da Basilea 2.

Le banche europee, tuttavia, sottostanno a norme secondo le quali devono avere liquidità per le necessità di cassa per almeno 30 giorni in uno scenario critico.

I principali istituti bancari italiani arrivano almeno a 45 giorni, in alcuni casi si superano i 60 giorni. L’Europa vigila molto sulle attività delle banche e questo ricade positivamente sui correntisti.

Le banche italiane e i correntisti

A febbraio del 2023 l’Associazione bancaria italiana (Abi) ha censito 1.787 miliardi di euro in depositi e 211 miliardi in bond.

Nonostante i bassi rendimenti, la raccolta di liquidità è cresciuta negli ultimi mesi e i correntisti italiani sono poco inclini a conservare i propri averi con investimenti mirati.

Ne deriva che le banche hanno molta liquidità, un grande salvagente che attutisce i colpi della risacca di qualsiasi maremoto.

Insomma, proprio perché gli italiani hanno depositato molto denaro liquido, le banche sono solide e quindi, per i correntisti, non c’è alcun rischio anche se per un’isteria continuata e sempre più irrazionale dovesse scattare la corsa allo sportello per rientrare in possesso dei soldi.

Poiché nei momenti di crisi conta molto l’immagine che le banche danno di loro stesse, quelle italiane trasmettono sicurezza e una resilienza stalattitica.

Il Superbonus 110 non tornerà mai più, cosa succederà ai cantieri?


Il governo Meloni dice addio al Superbonus al 110%. Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, nonostante la prima approvazione della direttiva europea sulle case green, che costringerebbe ai lavori di efficientamento energetico di almeno 1,8 milioni di edifici italiani entro il 2030, ha infatti chiuso a un allargamento degli incentivi. 

Al momento il governo ha bloccato la cessione del credito e lo sconto in fattura per tutti i bonus edilizi e ha ridotto il Superbonus al 90%. Secondo il titolare di Via XX Settembre, l’esecutivo è dovuto “intervenire d’urgenza per mettere in sicurezza i conti dello Stato, perché il meccanismo ha generato 120 miliardi di debito maturato”. 

Al momento lo sconto totale al 110% si può usare, per chi ha presentato l’apposita documentazione nel 2022, fino al 31 marzo 2023 per le villette, fino alla fine del 2023 per i condomini e le cooperative edilizia, con cessione o sconto se già formalizzati nel 2022. 

Il governo, ha proseguito però Giorgetti, “è aperto al confronto per un secondo tempo sostenibile del meccanismo della cessione del credito”.

L’esecutivo ragiona poi su una proroga per le villette, se i lavori sono già in fase avanzata, fino al 30 giugno. E poi pensa allo sblocco dei crediti per compensazione. 

Nel frattempo, come segnalato da Money.it, tra i cantieri italiani c’è ancora il caos, tra crediti incagliati nei cassetti fiscali delle banche e imprese che non riescono o non vogliono onorare gli impegni, mettendo in difficoltà i cittadini che hanno avviato i lavori in casa. 

Ci sono così esempi di chi ha pagato 200mila euro di lavori per una casa che ne vale 50, anticipando i soldi, senza possibilità di riprenderli.

Ci sarebbero aziende, poi, che secondo alcune testimonianze, dopo l’approvazione del decreto con lo stop a cessione del credito e sconto in fattura hanno chiesto ai condomini o proprietari di villette di tirare fuori migliaia di euro da un giorno a un altro.

Per non parlare delle migliaia di rallentamenti e blocchi di cantiere avvenuti negli ultimi mesi in tutta Italia. 

L’inversione di rotta sul 110% riscrive l’ordine degli interventi


Dal riscaldamento alla coibentazione, fino agli impianti da fonte rinnovabile. L’inversione di rotta sul superbonus potrebbe influire sulle scelte dei proprietari e cambiare (di nuovo) la distribuzione dei lavori.

Con la detrazione del 110% spiega l’ultimo report Enea più di un quarto degli investimenti (26%) ha interessato le pareti verticali, il cosiddetto cappotto termico; il 18% la sostituzione degli infissi e l’8% la coibentazione di soffitti e tetti.

Mentre tra gli impianti, con poco meno dell’8% degli investimenti, sono stati premiati i sistemi ibridi (caldaia a condensazione e pompa di calore), seguiti dalle pompe di calore (5,5%) e dalle caldaie a condensazione (3,7 per cento).

La mappa degli impieghi da superbonus è quindi concentrata sull’involucro. Ed è molto diversa da quella degli anni scorsi, quando si tendeva a preferire ristrutturazioni meno pesanti (e costose).

Come rivela lo stesso Enea, nel periodo 2014-2020, prima del boom del 110%, ha dominato la sostituzione delle finestre (dieci miliardi di euro di investimenti), seguita a gran distanza dalle caldaie a condensazione (quattro miliardi) e dai lavori su pareti orizzontali (3,3 miliardi) e verticali (2,7 miliardi).

Uno studio di Banca d’Italia («Il Superbonus: impatto sui conti pubblici e sul settore edilizio», di Olivieri e Renzi) stima che metà degli investimenti agevolati dal 110% non si sarebbero verificati in assenza dell’incentivo.

Ma questo effetto aggiuntivo non copre l’intero costo dell’agevolazione per l’Erario, come ha precisato in audizione al Senato Giacomo Ricotti, capo del servizio assistenza e consulenza fiscale di Bankitalia.

Come coniugare l’equilibrio dei conti pubblici e gli obiettivi di riqualificazione del patrimonio edilizio residenziale?

Ragioniamo sulle opere. «Il maggior risparmio energetico arriva dai lavori sull’involucro. Lavori i cui investimenti, senza incentivi, avrebbero però un ritorno economico in 12-15 anni», commenta Davide Chiaroni, vicedirettore Energy & Strategy del Politecnico di Milano.

«Nelle analisi degli operatori prosegue un “sano” equilibrio di detrazione, lontano dagli eccessi del 110%, sarebbe intorno al 65-70%: per consentire un ritorno almeno in 6-7 anni».

È un livello di agevolazione più vicino all’attuale concetto di ecobonus, che però ha spinto soprattutto il “kit di base” della riqualificazione energetica: cambio di serramenti e caldaie. Con benefici che ripagano gli investimenti (contenuti) in tempi ragionevoli.

Il problema del cappotto sono i costi, a partire dai ponteggi, e il peso degli adempimenti, dei permessi. Senza contare gli oneri accessori: se il cappotto è spesso, ad esempio, potrebbe costringere a rifare le aperture finestrate.

Altra questione, invece, riguarda gli edifici su cui concentrare gli interventi. «Già far salire in classe energetica E gli edifici oggi in classe G e F significa rinnovare oltre il 60% delle abitazioni osserva Chiaroni.

Raggiungere questo livello vuol dire tagliare i consumi del 30% rispetto a una classe F e del 40-45% rispetto a una classe G. Tuttavia, la classe E comporta comunque consumi doppi rispetto alla classe B, e non può essere l’obiettivo finale a cui tendere».

Dal punto di vista della “qualità” delle opere, la chiave sarebbe associare l’incentivo al kilowattora risparmiato e non all’euro speso.

Perché un conto è sostituire una caldaia a gas abbastanza efficiente, un altro è rottamare un impianto a gasolio degli anni 50.

«Non sarebbe neanche corretto differenziare gli aiuti in base alla classe energetica, visto che tanti edifici sono inquadrati in classe G, di default, perché mai classificati.

Collegare l’incentivo agli obiettivi di risparmio spiega ancora Chiaroni è più complesso ma più sensato, seguendo un po’ la logica che animava i certificati bianchi. Ma tenendo presente che togliere del tutto la cessione del credito e lo sconto in fattura può solo frenare gli investimenti».

Crisi immobiliare, tutti gli indizi per prevedere la prossima bolla


La crisi di Credit Suisse e il tracollo di Silicon Valley Bank in California hanno riportato in auge nella finanza il timore per nuove e strutturali bolle, capaci di colpire duramente la finanza internazionale.

Si teme che il Paese dei Balocchi finanziario dell’era dei bassi tassi, della capitalizzazione in volo e del denaro facile possa aver creato un’inflazione nei valori borsistici delle compagnie più quotate, banche in testa, rendendole soprattutto negli Stati Uniti vulnerabili alla fine dell’euforia.

Building and sign bank (done in 3d)

Perché fa paura il default di Blackstone in Finlandia

Svb è crollata, Signature Bank ha seguito e First Republic Bank è stata salvata dall’intervento degli altri istituti che ne hanno garantito il capitale.

Al contempo, in Europa da più parti si inizia a temere strutturalmente lo scoppio di un’altra bolla legata ai valori immobiliari continuamente in ascesa da diversi anni per la corsa dei tassi e la ricerca di realizzo da parte di molti investimenti consolidati.

Il default di Blackstone su un bond in Finlandia e il blocco ai prelievi dai fondi garantiti dal real estate da parte di colossi come Schroeders e BlackRock ha aperto dubbi in tal senso.

Molti portafogli hanno perso il valore iniziale

C’è poi il caso della colossale perdita di valore delle obbligazioni di cui le imprese e le istituzioni finanziarie hanno fatto incetta negli anni del denaro facile e che oggi soffrono per rincari dei tassi e inflazioni. 

Il New York Times scrive che molte banche detengono grandi portafogli di obbligazioni a lungo termine che valgono molto meno del loro valore originale.

Le banche statunitensi erano sedute su 620 miliardi di dollari di perdite non realizzate da titoli che erano scesi di prezzo alla fine del 2022, sulla base dei dati della Federal Deposit Insurance Corporation, con molte banche regionali che affrontavano durissimi colpi“.

Attenzione a passare dall’euforia all’ansia

Le bolle possono insomma dietro l’angolo. E arrivano non a caso. La loro esplosione segue le fasi in cui dalla fine dell’euforia finanziaria si passa verso una fase d’ansia in cui si può scatenare il panico.

E chi investe deve ricordare che i mercati sono come gli ultrà delle squadre di calcio: sovrareagiscono a ogni evento, sono umorali e passano rapidamente dall’innamoramento all’odio per un programma.

Vale così, dai bulbi di tulipano del Seicento ai subprime, dalle azioni della South Sea Company del XVIII secolo all’immobiliare cinese dello scorso decennio.

Alla mania per un prodotto segue la fine dell’euforia. A questa fase, nel peggiore dei casi può subentrare in scia un panico sistemico e da ultimo i mercati possono avvitarsi su loro stessi.

Nello schianto della bolla. Charles Kindleberger (1910-2003) ne ha scritto attenatamente in Manias, Panic and Crashes, il saggio pubblicato per la prima volta nel 1978 alla luce del quale si può leggere ogni bolla di ieri e di oggi. Figlia della hybris e della tracotanza umana prima ancora che delle dinamiche finanziarie in senso tecnico.

La tendneza studiata da Kindleberger è quella alla sostanziale ripetitività della storia umana. Funzionale, in campo finanziario, a far dominare l’emotività anche di fronte a mercati supposti come razionali.

Un processo in cui di fronte alla fine dell’euforia la strada può spesso essere tracciata. Compito delle istituzioni è lenire in partenza ogni possibile effetto-contagio capace di danneggiare l’economia e travolgere le borse: il caso Credit Suisse e l’intervento immediato della Banca nazionale svizzera insegnano.

E compito degli investitori è ricordare che le fasi di crescita e discesa fanno fisiologicamente parte dei cicli finanziari.

Far trionfare l’emotività pensando che le vacche grasse dureranno per sempre può ribaltarsi nella minaccia di fasi difficili e complicate forirere di crisi se si alimentano le bolle aprendo a una sovraestensione dei mercati.

E tra immobiliare, azioni e obbligazioni oggi le spade di Damocle non mancano.

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Perché è fallita la Silicon Valley Bank. E come evitare che ora falliscano anche altre banche

Credit Suisse, cosa succede ai risparmiatori e ai conti in caso di fallimento


Cosa succede ai risparmiatori di Credit Suisse in caso di fallimento? Anche in Svizzera, al pari dell’Italia, esiste un cordone di salvataggio per chi ha denaro custodito in una banca in dissesto.

Ad attivarlo è Esisuisse, associazione fondata a Basilea nel 2005 di cui fanno parte tutti gli istituti di credito con filiali sul territorio svizzero.

Se la Finma, cioè l’autorità federale di vigilanza sui mercati finanziari in Svizzera, apre un procedimento di liquidazione fallimentare per una banca (ma anche per una società di intermediazione mobiliare), per rimborsare immediatamente i depositi privilegiati si attinge in prima battuta agli attivi liquidi disponibili dell’istituto.

Esisuisse interviene solamente nel caso gli attivi liquidi disponibili non siano bastanti a rimborsare direttamente i depositi garantiti dei clienti: l’associazione delle banche a quel punto raccoglie risorse tra i propri membri e li inoltra entro 20 giorni feriali alla Finma che procede a trasferirli ai titolari di conti.

Se la banca ha sufficiente liquidità, ai clienti vengono rimborsati fino a un massimo di 100 mila franchi svizzeri. Nel caso non sia sufficiente, Esisuisse copre la differenza. Il massimo che l’associazione può stanziare è 6 miliardi di franchi.

C’è la corsa a ritirare i depositi dalla banca svizzera?

Il timore ora è che si registri una corsa agli sportelli per ritirare i depositi dalla banca svizzera in difficoltà: gli esperti di Activetrades hanno ad ogni modo sottolineato che per Credit Suisse non si è determinata la corsa agli sportelli, a differenza di quanto successo per l’istituto californiano Svb.

La stessa Credit Suisse ha chiesto alla Borsa di Zurigo e alla Banca centrale svizzera di fornire rassicurazioni alla clientela, tanto è vero che le azioni del gruppo hanno in qualche modo ridotto il crollo, pur chiudendo giù del 24,24%.

In Italia il sistema di assicurazione per i fondi dei risparmiatori è simile: il Fondo interbancario copre fino a 100 mila euro (102 mila franchi svizzeri).

La soglia si applica per ogni depositante, per singola banca. Se un depositante ha più depositi intestati presso la stessa banca, i conti sono cumulati e sull’importo complessivo si applica il limite di garanzia di 100.000 euro.

Classi, previdenza e estero

Il denaro oltre i 100 mila euro non è coperto dalla garanzia dei depositi e viene perciò assegnato alla cosiddetta «terza classe fallimentare», ovvero vengono rimborsati almeno in parte al termine della procedura di liquidazione della banca.

Prima si rifondono tutti i correntisti fino a 100 mila franchi e quelli con depositi in ambito previdenziale (pilastro 3a) cioè la «previdenza vincolata», il capitale versato e vincolato fino al pensionamento.

A beneficiare della garanzia è «ogni persona fisica o giuridica (eccetto gli istituti) titolare di depositi contabilizzati presso le succursali di banche e società di intermediazione mobiliare in Svizzera», a prescindere dal fatto che tale persona sia domiciliata in Svizzera o all’estero.

I depositi tutelati contemplano il denaro su conti privati, di risparmio, d’investimento, per il versamento di salari, cifrati, di deposito e congiunti nonché conti correnti, per associazioni e per cauzioni di affitti.

Anche le obbligazioni di cassa depositate a nome del portatore all’istituto emittente rientrano in questa casistica.

Credit Suisse (-24%), la Banca nazionale svizzera assicura liquidità, si va verso lo spezzatino


Giornata al cardiopalma per il secondo maggiore gruppo svizzero che ha perso il 24% dopo che i soci sauditi hanno avvertito che non aderiranno ad un secondo aumento di capitale. 

Forti vendite anche sui bond che arrivano a rendere il 37%.   

Al lavoro, la Banca nazionale svizzera e il governo, il Dipartimento del Tesoro Usa e la Bce.

Perché è fallita la Silicon Valley Bank. E come evitare che ora falliscano anche altre banche


“Nessuno dovrebbe fare ciò che ha fatto l’istituto fallito” precisa Pasquale Zaccarella, già ispettore presso la BCE ed esperto in stabilità finanziaria: “Gli strumenti per evitare altri crack sono nelle mani del Tesoro Usa e della Fed”

Il fallimento della Silicon Valley Bank (istituto di credito californiano specializzato nei depositi di aziende hi-tech) e il conseguente, immediato intervento a livello di Segretariato al Tesoro Usa per bloccare un eventuale contagio, è al centro di speculazioni e ragionamenti nel settore bancario.

Lo spettro della crisi dei mutui subprime del 2007, partita proprio col fallimento di una banca, sta agitando in queste ore i risparmiatori.

Da un lato, il presidente Biden ha rassicurato: “Gli americani possono stare tranquilli: i loro depositi sono al sicuro”.

Dall’altro, il commissario europeo all’Economia, Paolo Gentiloni, ha messo in chiaro: “Non credo che ci sia un reale rischio di contagio in Europa, al momento”.

Eppure, le Borse mondiali (e a maggior ragione le europee, segnatamente Milano) sono in rosso.

Sul tema Pasquale Zaccarella, economista e consulente privato di finanza e studi macroeconomici, già ispettore della Banca Centrale Europea ed esperto in materia di macroeconomia e stabilità finanziaria.

Dottor Zaccarella, ci spiega, molto semplicemente, cosa è successo alla Silicon Valley Bank?

Nei giorni scorsi, diversi clienti che avevano il conto corrente presso la Silicon Valley Bank (SVB) hanno chiesto la restituzione dei soldi depositati. Purtroppo, i clienti erano così tanti che SVB non aveva questi soldi in cassa. Il fenomeno è chiamato bank run. È già capitato in passato: quando una banca viene percepita come rischiosa, i clienti vanno a richiedere la restituzione dei soldi depositati.

Come si è arrivati a tutto questo?

SVB finanziava attraverso prestiti, imprese startup. Aveva un’idea imprenditoriale magari “folle” o davvero interessante ma altamente rischiosa. Aprivi un conto presso SVB e ti finanziavano un prestito, parzialmente. Nel frattempo, cercavi capitali in giro e, una volta raccolti, li versavi presso il tuo conto corrente in Silicon Valley Bank. Del resto, perché versarli altrove?

Ma perchè è fallita, nello specifico?

SVB aveva conti correnti di tantissime startup, su cui sono depositati importi di gran lunga superiori ai 250mila dollari. Gli USA, attraverso il Fondo di garanzia depositi, garantiscono fino a 250mila dollari in caso di default della Banca presso cui un imprenditore/risparmiatore ha il conto corrente. Silicon Valley Bank finanziava, come detto, imprese rischiose e il restante del portafoglio era investito in prodotti finanziari complessi e prestiti (obbligazioni) con rischio superiore alla media. Pur di guadagnare, in un periodo di tassi bassi, la banca investiva in tutto ciò che potenzialmente rendeva più della “media”.

Poi cosa è successo?

Silicon Valley Bank aveva bisogno di liquidità: ha provato a chiedere capitale ma non ha trovato sufficienti investitori. Così ha cambiato piano e ha venduto alcuni titoli che aveva in portafoglio. I titoli sono stati venduti in perdita pur di racimolare soldi.

Perché vendere in perdita?

I mercati finanziari sono stati “impattati” prima dalla fine dei programmi di acquisto delle Banche Centrali, poi dal conflitto Ucraina-Russia e infine dall’aumento dei tassi. Tutto ciò ha provocato prezzi a ribasso sia delle azioni sia dei Titoli di Stato, come quelli americani. Silicon Valley Bank ha appunto venduto in perdita a causa dei tassi elevati. Era un istituto impreparato all’aumento dei tassi.

La domanda che al momento interessa tutti: c’è un vero rischio-contagio?

Come detto, molte imprese avevano conti correnti presso Silicon Valley Bank. Ora fanno fatica a pagare prestiti ad altre banche del sistema. Inoltre, anche altre banche sono potenzialmente creditori di SVB e potrebbero non vedere più i soldi indietro. Anche il Tesoro USA ha dichiarato che sta monitorando il rischio contagio.

Come fermarlo?

Occorre salvare i correntisti ma evitare che situazioni simili si verifichino di nuovo. Ovvero, dare un messaggio forte: salviamo i risparmi ma nessuno dovrebbe fare ciò che ha fatto Silicon Valley Bank. Le banche devono fare le banche e non i fondi di investimento rischiosi (hedge fund, ndr).

Quali strumenti vanno messi in campo per arginare la propagazione di un fallimento ad altri istituti di credito?

Può deciderlo soltanto il Tesoro e la Federal Reserve. Puoi salvare i correntisti oppure la Fed potrebbe comprare i prestiti, come si sta ipotizzando in queste ore.

Stiamo affrontando un altro crollo del mercato, SVB sarà solo il primo? – XTB


Il settore finanziario sta attraversando una crisi che, per molto osservatori, ricorda per alcuni aspetti quanto accaduto tra il 2007 e 2008 anche se su scala minore.

Il sell-off attuale sui mercati è stato causato dalla SVB (NASDAQ:SIVB), le cui azioni hanno perso venerdì il 60% e mosse simili si osservano oggi. Qual è il motivo?

Un’altra Lehman Brothers?

La Silicon Valley Bank è stata costretta a vendere parte del suo portafoglio obbligazionario da 21 miliardi di dollari per mantenere la liquidità.

Di conseguenza, la banca ha registrato una perdita di $ 1,8 miliardi. La banca ha tentato di raccogliere più di $ 2 miliardi di capitale per aiutare a compensare le perdite sulle vendite di obbligazioni.

Tuttavia, il mercato teme che possa manifestarsi un effetto domino se l’aumento di capitale non sarà sufficiente, viste le deboli condizioni finanziarie di molte start-up tecnologiche sostenute dalla banca.

Cosa ha causato una perdita così grande?

Le banche statunitensi detengono quantità significative di buoni del Tesoro statunitensi nei loro portafogli. A seguito dell’aumento dei tassi di interesse della FED, il valore di queste obbligazioni è peggiorato, quindi anche il valore dei portafogli obbligazionari ha registrato perdite.

Ma solo “sulla carta”, definita come una perdita non realizzata. Affinché questa perdita si realizzi, la banca deve vendere le proprie obbligazioni prima della data di rimborso, spesso causata da problemi di liquidità.

Questo è successo alla Silicon Valley Bank. Tuttavia, il potenziale problema dell’aumento delle perdite non realizzate sui portafogli obbligazionari si applica non solo alla Silicon Valley Bank, ma anche ad alcune delle più grandi banche statunitensi.

I banchieri di Wall Street sono vicini a un disastro?

A quanto pare, il valore delle perdite non realizzate nei portafogli delle maggiori banche di Wall Street è notevole ed è aumentato in modo significativo a seguito degli aumenti dei tassi di interesse.

La Federal Deposit Insurance Agency a febbraio ha riferito che le perdite non realizzate delle banche statunitensi con i titoli a scadenza al 31 dicembre ammontavano a 620 miliardi di dollari, rispetto agli 8 miliardi di dollari dell’anno precedente, prima che la Fed iniziasse a il processo della sua politica.

Vale la pena esaminare l’ammontare delle perdite non realizzate sui portafogli delle quattro maggiori banche statunitensi.

La voce del buon senso

Tuttavia, sembra che le previsioni sull’inizio di un’altra crisi finanziaria debbano essere prese con attenzione.

Ci sono tre ragioni:

  1. In primo luogo, le obbligazioni detenute dalle banche sono in gran parte buoni del Tesoro USA, non obbligazioni tossiche “garantite” da mutui in sofferenza come avveniva nel 2008.
  2. In secondo luogo, le banche realizzeranno perdite sul portafoglio obbligazionario solo se dovranno venderle prima, prima della data fissata per il rimborso.
  3. In terzo luogo, se le banche non hanno problemi con la liquidità attuale, non dovranno liquidare i propri portafogli obbligazionari in un momento precedente.

In sintesi, le attuali condizioni di liquidità del settore bancario sono cruciali. Gli investitori devono monitorare le condizioni finanziarie della Silicon Valley Bank e se le emissioni di azioni colmeranno il divario di $ 1,8 miliardi e ripristineranno la liquidità della banca.

Primi effetti ed ipotesi inquietanti dopo il fallimento “a sorpresa” della sedicesima banca Usa


L’effetto domino del crack della Silicon Valley Bank e le conseguenze in Italia sono al centro di ipotesi e timori degli analisti.

I primi effetti e gli scenari inquietanti dopo il fallimento “a sorpresa” della sedicesima banca Usa sono sul tavolo dell’economia di settore e lo spettro, evocato ma non ancora certo, è che possa ripetersi il disastro che nel 2008 arrivò dagli Usa con Lehman Brothers.

Building and sign bank (done in 3d)

Crack Silicon Valley Bank e conseguenze

Il dato di partenza è che il fallimento di Silicon Valley Bank ha terremotato ieri i mercati finanziari: il settore creditizio ha fatto registrare un collasso planetario perché Svb è la sedicesima banca americana per dimensione e fa attivi per 209 miliardi di dollari con 175,4 miliardi di depositi.

Venne fondata nel 1983 da Bill Biggerstaff e Robert Medaris in California ed Svb è di fatto la stella polare delle startup Usa. Insomma, il clima è da pre disastro. E le conseguenze generali? Lo USD Coin ha perso l’aggancio al dollaro e le startup restano senza stipendi.

La paura di una nuova Lehman Brothers

Va detto che gli analisti non credono affatto che ci sarà un effetto domino paragonabile a quello che Lehman Brothers ma visto che gli istituti di credito sono in esposizione con il mercato dei titoli di Stato la paura è che dal mondo di start up e criptovalute i guai tracimino nell’universo bancario convenzionale degli stati, Italia inclusa.

In che modo? Attraverso titoli bouquet delle altre banche che per prima hanno subito lo scossone.

I titoli bouquet e la Borsa di lunedì

Nelle ore in cui Svb veniva chiusa ed agganciata alla Fdic, l’agenzia federale che assicura i depositi, anche PacWest Bancorp, First Republic, Western Alliance sono finite nell’occhio del ciclone.

First Republic e Western Alliance hanno cercato di calmare gli investitori dichiarando “che la loro liquidità e i loro depositi restano solidi”. Dove stiamo andando anche noi italiani lo si capirà soltanto lunedì alla riapertura dei mercati.

Quanto durano le batterie delle auto ibride? Ciò che si deve sapere


Quanto durano le batterie delle auto ibride? Mentre vi sedete tranquillamente nella vostra ibrida, godendovi il ronzio del motore, vi chiederete: ma quanto durano le batterie ibride?

Forse conoscete già la durata della batteria di un’auto, ma quella di una batteria ibrida è diversa. Continuate a leggere per sapere quanto può durare la vostra batteria ibrida e cosa potete fare per prolungarne la durata.

Quanto durano le batterie delle auto ibride? Tutto ciò che si deve sapere

Una batteria ibrida vi farà risparmiare migliaia di euro di carburante ogni anno. Altri corrono alle stazioni di servizio per fare il pieno. Si collega l’auto alla presa di corrente del garage e si va alle pompe di benzina la metà delle volte rispetto al vicino.

Alla fine, però, dovrete pagare qualcosa per riparare o sostituire la costosa batteria ibrida che vi ha servito così bene per migliaia di chilometri.

La maggior parte dei produttori di auto ibride dichiara che una batteria ibrida dura da 80.000 a 100.000 chilometri. Tuttavia, con la giusta manutenzione e le riparazioni di base, i proprietari di auto ibride hanno riferito che alcune batterie durano fino a 240.000 e persino fino a 320.000 km.

In questi casi di grande chilometraggio della batteria ibrida, il proprietario di un’auto di solito la guida per 5-15 anni.

Cosa influisce sulla durata della batteria ibrida?

La durata della batteria dipende direttamente da quanto si guida l’auto. Confrontate un venditore che guida la sua auto per un centinaio di chilometri al giorno con un pendolare che ne percorre venti al giorno. Il viaggiatore su strada utilizza la batteria ibrida in misura maggiore rispetto al pendolare di breve durata.

Un maggior numero di cicli in un periodo di tempo più breve significa che la batteria si consumerà più rapidamente.

Se la batteria viene utilizzata solo poche volte al giorno durante gli spostamenti, apparentemente durerà molto di più.

L’età conta

Potrebbe essere necessario sostituire la batteria ibrida in soli cinque anni dal momento dell’acquisto. Tuttavia, i tempi dipendono in gran parte dall’uso che si fa dell’auto.

Le auto utilizzate quotidianamente per lunghi viaggi necessitano di una sostituzione della batteria in soli cinque anni. Tuttavia, se l’auto viene utilizzata per uso privato e non viene utilizzata regolarmente per lunghi viaggi, la batteria potrebbe durare anche 10 o 11 anni.

Il chilometraggio è importante

L’età è solo un numero. Il numero di chilometri percorsi dalla batteria ne determina la durata tanto quanto l’età.

Ad esempio, una Prius del 2005 con 150.000 chilometri avrà in teoria una batteria migliore di una Prius del 2011 con 150.000 chilometri. L’auto del 2011 ha effettuato più cicli in un periodo più breve. Ciò significa che la Prius del 2011 ha subito cicli più intensi in un periodo più breve.

Quindi, il conducente dell’auto del 2011 ha sottoposto la Prius a un uso più intenso e quindi la sua batteria ha subito maggiori sollecitazioni rispetto alla Prius del 2005.

La batteria è bilanciata?

Le batterie ibride si guastano per una serie di motivi. Spesso si guastano perché le singole celle non sono bilanciate con le altre.

Ad esempio, una tipica Toyota Prius serie 20 ha 28 celle singole con circa 6500 mAh, o milliampereora. La capacità della batteria si riduce nel tempo fino a 1500 mAh.

La rottura, tuttavia, non avviene sempre in modo uniforme. Alcune celle possono scendere fino a 1500 mAh, mentre altre possono ancora raggiungere i 5000 mAh.

Se le celle non sono bilanciate, la batteria ibrida si guasta più rapidamente rispetto a una batteria con celle bilanciate.

Bollette, Pichetto: «Valutiamo proroga sconti dopo il 31 marzo». Quanto si pagherebbe senza gli aiuti?


Si fa strada la proroga degli sconti sulle fatture dell’energia che scadono a fine mese. Lo annuncia il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto.

Sulla eventuale conferma degli sconti che scadono il 31 marzo per le bollette energetiche «stiamo facendo una valutazione in questi giorni in raccordo con il ministero dell’Economia che tiene i cordoni della borsa e questo influirà certamente nell’inserire anche tutto, in parte o nulla dei cosiddetti oneri di sistema nella bolletta.

Ma confermo che dopo un primo ribasso del 20% nel precedente trimestre dovremo riavere un altro 20% che si unisce al 34% del gas e al successivo 10.

Quindi il trend è abbastanza buono» ma per per un nuovo intervento bisogna andare con cautela.

Energia elettrica, scoperto nuovo superconduttore rivoluzionario: ecco di quale si tratta


Una recente scoperta scientifica potrebbe rivoluzionare il modo di produrre e trasportare l’energia elettrica. Ecco le informazioni disponibili in merito.

Scoperto nuovo superconduttore che potrebbe rivoluzionare la produzione dell’energia elettrica

Un superconduttore si presenta come un materiale che non oppone resistenza al passaggio dell’elettricità. Anzi, consente di trasportare corrente senza alcuna dispersione. Non mancano tuttavia alcune problematiche, quest’ultime legate al fatto che deve essere sottoposto a temperature bassissime oppure a pressioni elevatissime.

La speranza, quindi, sarebbe quella di avere un superconduttore in grado di funzionare a temperatura ambiente. Un sogno che dopo l’ultima scoperta potrebbe diventare realtà. Nei laboratori dell’Università di Rochester, infatti, è stato scoperto che l’idrite di lutezio presenta elementi di superconduttività ad una temperatura pari a circa 21 gradi.

Scoperto nuovo superconduttore rivoluzionario, ma non mancano i dubbi

Una scoperta presentata in occasione del congresso annuale dell’American Physical Society che potrebbe avere dei benefici non indifferenti nel mondo dell’energia elettrica.

Al momento comunque, è bene sottolineare, si tratta di un materiale in fase di studio e non è dato sapere se potrà essere effettivamente utilizzato per contrastare la crisi energetica.

Non resta quindi che attendere e vedere se vi saranno ulteriori risvolti in tale ambito.

“Sanzioni e rialzi dei tassi, così si rischia una catastrofe”: parla Sapelli


Se gli effetti economici globali inaugurati dalle sanzioni alla Russia si sommeranno a rialzi continui dei tassi l’Europa rischia la catastrofe economica.

Casi come il recente default del bond Blackstone dovrebbero far riflettere“. Lo storico ed economista Giulio Sapelli è letto sull’agenda economica che attende l’Unione Europea e l’Occidente nei mesi a venire.

Professore, da dove parte questo rischio di crisi strutturale?

“Viviamo una fase dove non si riesce a capire la rotta che segua l’Europa e quali scenari si sviluppino a livello globale. L’aggressione imperialista della Russia, un anno fa, ha scatenato un moto di indignazione e ha portato al varo delle sanzioni, che hanno però impattato su un contesto globale debole.

In tutto il mondo abbiamo visto l’aumento delle materie prime di ogni tipo, dai metalli al grano passando per l’energia. A questo è seguito ovviamente l’aumento delle merci che si è sommato al fallimento culturale ereditato dalla pandemia…”

A cosa si riferisce?

“Per lunghi mesi abbiamo avuto alti costi della logistica e dei noli marittimi, uno spiazzamento delle catene del valore e una crisi strutturale a cui i manager da un lato hanno risposto con le logiche just-in-time che già il Covid avrebbe dovuto ricordare errate.

Del resto, è tutt’altro che difficile capire che una crisi di offerta avrebbe prodotto un aumento dei prezzi! Dall’altro lato, le banche centrali hanno pensato di governare con metodi monetari una crisi d’offerta”.

Dunque la stretta monetaria eccessiva è un problema?

“Sì, perché se da un lato è chiaro che non si poteva proseguire all’infinito col denaro a costo zero, dall’altro l’impuntarsi sulla necessità della stretta monetaria per risolvere una crisi d’offerta che parte dall’economia reale, raffreddando la domanda, è sul lungo periodo dannosa. Specie se questo si somma agli effetti distorsivi delle sanzioni, che oltre che economici sono politici”.

L’Europa in quest’ottica sembra la più danneggiata…

“Di fronte a un’invasione russa dell’Ucraina che è stato un atto criminale e inaccettabile gli Stati Uniti hanno reagito operando una stretta in termini di sanzioni che pareva chirurgicamente mirata a tagliare i legami tra la Russia e l’Europa.

Anzi, le sanzioni hanno direttamente preso di mira l’asse franco-renano che guida l’Europa. Del resto proprio dallo schiaffo franco-tedesco a Washington sull’Iraq e l’invasione del Paese guidato da Saddam Hussein, vent’anni fa, inizia la diffidenza Usa verso il Vecchio Continente.

Francia e Germania erano inclini a negoziare fino all’ultimo con Vladimir Putin, Berlino era addirittura restia all’invio di armi e alla rottura del nuovo Patto di Rapallo che la univa a Mosca.

Quanto anticipato ieri (7 marzo) dal New York Times circa la possibilità che una mano filo-ucraina abbia addirittura sabotato il North Stream 2 mostra come la Germania sia direttamente investita dalla guerra”.

Quale futuro per Europa e Unione Europea in quest’ottica?

“A mio avviso a essere prese di mira sono le strategie di autonomia di Germania e Francia. La Germania mirava a promuovere una grande unione commerciale da Berlino a Mosca, capace di arrivare a Pechino attraverso Vladivostok.

La Francia invece è maggiormente autonomista sul piano della Difesa e sull’energia spinge sul nucleare, trovandosi su questo punto in disaccordo con la Germania che prosegue il suo phasing out.

In un conflitto inter-imperialista come quello tra Russia e Usa l’Europa è in difficoltà”.

La posta in gioco è l’Ucraina?

“L’Ucraina in primo luogo. In secondo luogo la Germania. Scherzando si potrebbe dire che Washington vuole riproporre nel XXI secolo un nuovo Piano Morgenthau, il progetto post-seconda guerra mondiale con cui si voleva ridurre la Germania a Paese agricolo e pastorale.

Il Paese finì diviso perché il vero vincitore della Seconda guerra mondiale, il conquistatore di Berlino Iosif Stalin, decise per la divisione della Germania in zone di influenza.

Ora ciò che si vuole evitare è una convergenza sino-tedesca. In ottemperanza alla strategia Usa di contenimento di Pechino, su cui le oligarchie di Washington sono divise.

Ad esempio, alcuni vorrebbero chiudere la strada a Pechino nell’Indo-Pacifico puntando sull’armare il Giappone”.

Viviamo un’epoca complessa e caotica, insomma…

“Siamo partiti dalla crisi economica e dalla prospettiva di una sfida per sanzioni e tassi ma non dimentichiamoci che c’è il rischio della guerra nucleare non ancora sfatato.

Viviamo come camminando su un lago ghiacciato, in Europa e non solo. In passato ho parlato di relazioni internazionali a frattali, dove tutto è in frantumo e perenne divenire.

Quello che domina, alla fine, è lo spirito: manca un’idea di futuro nelle classi dirigenti”.