SOLFERINO La Battaglia
La battaglia di Solferino e San Martino anche ricordata come battaglia del 24 giugno 1859 venne combattuta fra l’esercito austriaco e quello franco-sardo, ponendo fine alla seconda guerra di indipendenza italiana. In realtà, si trattò di un insieme di battaglie distinte che si svilupparono autonomamente e quasi simultaneamente, su un fronte di oltre 20 km.
Fu la più grande battaglia dopo quella di Lipsia del 1813, avendovi preso parte, complessivamente, oltre 230.000 effettivi. Viene ricordata in Italia per essere il primo concreto passo verso l’unità nazionale italiana e in tutto il mondo per aver ispirato ad Henry Dunant la creazione della Croce Rossa Internazionale.
Il contesto
Dopo la sconfitta di Magenta, che aveva aperto le porte della Lombardia all’esercito franco-sardo, il feldmaresciallo Ferencz Gyulai, a capo dell’esercito austriaco, decise di ritirare le proprie truppe sulla sponda sinistra del fiume Mincio, all’interno del cosiddetto “Quadrilatero“, ricalcando così la prudente strategia applicata durante la prima guerra di indipendenza dal suo predecessore Radetzky.
A Vienna, intanto, l’opinione pubblica era sempre più indignata per l’andamento del conflitto e per la conduzione di Gyulai che, dopo essere arrivato a pochi chilometri da Torino, aveva dovuto abbandonare l’intera Lombardia.
Dopo l’arrivo dell’armata francese, l’esercito austriaco aveva collezionato un serie di sconfitte, nonostante la notevole superiorità numerica, la migliore conoscenza del terreno e la maggiore facilità di approvvigionamento.
Incalzato dal diffuso malcontento di corte, particolarmente condiviso e rimarcato dal consigliere personale Grünne e dalla madre Sofia, Francesco Giuseppe, scese in Italia per assumere personalmente il comando delle operazioni militari e, valutata l’impostazione difensiva di Gyulai non confacente al prestigio dell’esercito asburgico, decise improvvisamente di prendere l’iniziativa, confortato dal parere di buona parte del proprio Stato Maggiore.
La vigilia
La mattina del 23 giugno, l’imperatore austriaco diede ordine alle proprie truppe di puntare ad occidente, riguadagnando la riva destra del Mincio e tornando così ad occupare le posizioni abbandonate pochi giorni prima. Tale manovra puntava ad attestare l’esercito asburgico sulle colline moreniche poste a sud del lago di Garda e, da tale posizione dominante la pianura, sferrare un attacco all’esercito franco-sardo, sfruttando altresì il disordine in cui questo si sarebbe trovato nell’attraversare il Chiese, i cui ponti erano stati distrutti, per ordine di Gyulai, nel corso della ritirata.
Contrariamente alle supposizioni degli austriaci, grazie all’efficienza del Genio francese, il grosso dell’esercito franco-sardo aveva attraversato il Chiese già nella giornata del 22 giugno e si preparava ad avanzare speditamente verso il Mincio, confortato dai rapporti degli esploratori che, nei giorni precedenti, avevano verificato il ripiegamento del nemico e nella convinzione che la battaglia si sarebbe svolta sulle sponde di quel fiume, come appariva logico e strategicamente favorevole per gli austriaci.
Alle prime ore del 23 giugno, Napoleone III e Vittorio Emanuele II si erano incontrati sulle alture presso Lonato del Garda per discutere di un dispaccio inviato dall’imperatrice Eugenia che recava inquietanti notizie circa forti movimenti di truppe prussiane sul Reno. La lettera conteneva un pressante invito alla rapida conclusione della campagna d’Italia, affinché l’esercito francese potesse ritornare in Patria per difenderne i confini. Dopo un breve colloquio riservato, i sovrani tornarono ai rispettivi quartier generali.
I numerosi avvistamenti reciproci e gli scontri delle pattuglie in ricognizione, avvenuti in tutta la giornata e fino alle ultime luci del 23 giugno, non mutarono le convinzioni delle contrapposte case militari, anzi venendo interpretate a conferma: gli austriaci pensarono di aver intercettato le prime avanguardie franco-sarde in esplorazione e i franco-sardi credettero d’aver preso contatto con l’attardata retroguardia austriaca, com’era già accaduto a Melegnano.
Così non era: poche ore prima dello scontro, infatti, i due eserciti si trovavano schierati frontalmente su due linee parallele e vicinissime, estese da nord a sud per oltre 20 km, totalmente ignari l’uno dell’altro.
Le battaglie
Secondo il piano prestabilito, all’alba del 24 giugno l’armata franco-sarda mosse verso est, nell’intento di schierarsi lungo la sponda destra del Mincio. Come prima tappa mattutina, l’esercito francese avrebbe dovuto occupare i villaggi di Solferino, Cavriana, Medole e Guidizzolo, rispettivamente con il I corpo d’armata del generale d’Hilliers, il II corpo d’armata del generale Mac-Mahon, il III corpo d’armata del generale Canrobert ed il IV corpo d’armata del generale Niel, mentre alle quattro divisioni dell’esercito sardo era assegnato il compito di insediarsi a Pozzolengo.
Fatti pochi chilometri, inevitabilmente, le colonne franco-sarde vennero a contatto, una dopo l’altra, con le truppe austriache, fortemente attestate proprio a Solferino, Cavriana, Medole, Guidizzolo e Pozzolengo. Nel giro di poche ore, dalle 4 alle 7 del mattino, divamparono numerosi e feroci combattimenti, producendo un impatto generale, caotico e violentissimo che si protrasse per oltre 18 ore.
Il sostanziale equilibrio delle forze in campo, la feroce determinazione alla vittoria di entrambi gli schieramenti e, soprattutto, il generale caos determinato dalla totale assenza di preordinati piani di battaglia, furono le principali cause dell’enorme carneficina verificatasi.
Raggrupperemo la moltitudine di scontri nelle battaglie di Medole, Solferino e San Martino, che rappresentano, rispettivamente, il settore sud, centrale e nord dell’esteso fronte sul quale si combatté la grande battaglia di Solferino e San Martino.
Battaglia di Medole
Il sacrificio del colonnello Maleville nel corso della Battaglia di Medole
I combattimenti del 24 giugno 1859 iniziarono a Medole, nel settore sud del fronte, alle ore 3.50 del mattino. Durante la marcia di trasferimento che doveva condurlo a Guidizzolo, passando per l’abitato di Medole, il IV Corpo d’Armata francese si scontrò con la 1ª Armata austriaca.
Il generale francese Niel decise di dare immediatamente battaglia e, dimostrando una visione strategico-tattica non comune, schierò le sue forze sul confine est del territorio di Medole, così impedendo ai tre corpi d’armata austriaci, presenti a Guidizzolo, di dare manforte ai commilitoni della 2ª Armata, attestata sulle alture di Solferino e duramente attaccata dalle colonne francesi dei generali d’Hilliers e Mac-Mahon.
Le truppe di Niel, nonostante fossero numericamente molto inferiori e schierate su una linea di oltre 5 km, riuscirono a contenere i continui assalti del nemico con un abile alternarsi di azioni di difesa e parziali contrattacchi nei punti nevralgici di Crocevia, Quagliara, Casa Nuova, Baite e Rebecco.
I combattimenti, che si protrassero per 15 ore fino alla generale ritirata austriaca, causarono 14.279 perdite tra i contrapposti schieramenti.
Battaglia di Solferino
Intorno alle 4,30 del mattino le avanguardie del I Corpo d’Armata francese, comandato dal maresciallo Baraguey d’Hilliers, presero contatto con le truppe austriache del V Corpo d’Armata, guidato dal feldmaresciallo Stadion, nei pressi di Grole in territorio di Castiglione delle Stiviere.
Giunto nel quartier generale di Mac-Mahon sul Monte Medolano, alle 8.30, Napoleone III osserva lo svolgersi della battaglia
Contemporaneamente il II Corpo d’Armata francese, comandato dal maresciallo Patrice de Mac-Mahon incontrava reparti austroungarici, posti a difesa del borgo di Cà Morino, nel territorio a nord-est di Medole.
Le truppe austriache, attestate sulle alture moreniche e forti di tre Corpi d’Armata posizionati a Solferino, Cavriana e Volta Mantovana, resistettero lungamente al combinato assalto del I e del II Corpo d’Armata francese, tanto da costringere Napoleone III ad impegnare in battaglia anche la guardia imperiale.
Strappata Solferino al V Corpo d’Armata di Stadion nel primo pomeriggio, lo schieramento francese proseguì per conquistare Cavriana, dove incontrò una resistenza altrettanto tenace, operata dal I Corpo d’Armata austriaco del feldmaresciallo Clam-Gallas. L’entrata in combattimento di forze fresche, verso le ore 15, costituite dal III Corpo d’Armata francese del generale Canrobert, consentì di occupare Cavriana poco prima delle 18.
Battaglia di San Martino
La Battaglia di San Martino si compone di due scontri isolati, a San Martino e a Madonna della Scoperta, che videro l’Esercito sardo confrontarsi con l’VIII e il V Corpo d’Armata austriaci.
Nel più vasto, a San Martino, l’VIII Corpo d’Armata austriaco, numericamente inferiore di circa 7.000 uomini, era ben schierato su posizioni dominanti e già allertato dal rombo delle artiglierie che da oltre due ore duellavano a Solferino. Il feldmaresciallo Benedek ebbe gioco facile nel suo compito di difesa, resistendo fino alle ore 21, quando le armate austroungariche in ritirata da Solferino, Cavriana, Guidizzolo e Volta Mantovana, si erano ormai messe al sicuro passando il Mincio; quindi le seguì in un ordinato ripiegamento, lasciando l’esercito franco-sardo padrone del campo di battaglia.
Nella zona di Madonna della Scoperta, invece, la 1ª Divisione sarda del Gen. Durando ebbe un ruolo importante per le sorti della Giornata, quando nella marcia di trasferimento a Pozzolengo incontrò le Brigate austriache Gàal e Koller che tentavano di aggirare sulla sinistra il I Corpo d’Armata francese, fortemente impegnato nell’assalto a Solferino. La lotta fu impari per la grande supremazia numerica delle forze austriache, ma i reparti sardi opposero una resistenza tenace e quasi disperata, sufficiente a vanificare l’azione delle brigate austriache che furono costrette alla ritirata, dopo la conquista di Solferino.
Le forze in campo
Sul campo si trovavano complessivamente 263.000 uomini con 773 cannoni: soltanto durante la Prima Guerra Mondiale sarebbero state superate in Italia cifre così cospicue di combattenti in un solo scontro.
Nel loro settore gli Italiani impegnarono 34.000 uomini con 94 cannoni, mentre gli Austriaci disponevano di 32.000 soldati e 56 pezzi, con il vantaggio però di occupare forti posizioni sulle alture, che l’esercito piemontese avrebbe dovuto necessariamente espugnare, conquistandole palmo a palmo.
Sull’intero fronte i Francesi, invece, schieravano circa 100.000 uomini contro 95.000 Austriaci. Questi ultimi erano notevolmente superiori nell’artiglieria, poiché disponevano di circa 350 pezzi contro i 250 dei francesi, i quali però godevano di due notevoli vantaggi che si sarebbero rivelati poi, risolutivi.
Anzitutto, Napoleone III era presente sul luogo dello scontro e avrebbe potuto dirigerlo personalmente dal monte Fienile, quasi sulla linea del fronte, mentre Francesco Giuseppe ed il generale Hess si trovavano in posizione molto più arretrata rispetto alla linea del fronte, nella località del Volta, e non sarebbero riusciti quindi, ad avere un quadro altrettanto chiaro della situazione tattica. In secondo luogo, aggregata al I Corpo francese si trovava in riserva la Guardia imperiale francese che, conservando la tradizione di Napoleone I, era costituita da truppe sceltissime, le migliori che si trovassero in Italia.
Al contrario, gli Austriaci, come avrebbe osservato il generale prussiano Moltke nel commentare Solferino, non disponevano di alcuna riserva da poter impiegare in battaglia al momento giusto.
Dal suo osservatorio, dunque, Napoleone III intuì immediatamente la chiave della battaglia: la collina di Solferino era il perno dello schieramento nemico, e, sfondando in quel settore, egli avrebbe potuto mettere in crisi l’intero esercito austriaco. Per una curiosa coincidenza, la situazione sul terreno non era dissimile da quella affrontata dal suo illustre zio as Austerlitz. In questo caso, però, il I Corpo francese non poteva ricevere rinforzi perchè l’alleato piemontese, ubicato ala sua sinistra , si trovava già impegnato in combattimento contro l’VIII Corpo d’Armata austriaco a San Martino; inoltre, due delle cinque brigate del V Corpo francese erano impegnate alla Madonna della Scoperta e, infine, Napoleone III non poteva sperare neppure nell’IV Corpo di Niel alla sua destra, che, già si trovava in difficoltà con il III e il IX Corpo asburgico e, a sua volta, aveva bisogno del sostegno del II Corpo d’Armata di MacMahon e del III di Canrobert.
Il I Corpo, pertanto, avrebbe dovuto battersi da solo, in un attacco estremamente richioso, contro il parere del generale Baraguey d’Hilliers. Napoleone III, perfettamente cosciente della responsabilità che si assumeva da solo e in prima persona, ma, del resto, lucidamente convinto che nessun’altra condotta gli si presentasse da scegliere, trepidante, diede l’ordine d’attacco.
SOLFERINO E SAN MARTINO
Le conseguenze storiche e il bilancio finale
Il periodo tra l’estate del 1859 e quella del 1860 può a ragione essere definito l’annus mirabilis del Risorgimento italiano, malgrado il voltafaccia di Napoleone III con l’armistizio di Villafranca.
Da San Martino e Solferino sarebbero scaturite la liberazione e l’annessione della Lombardia al Piemonte, nonchè i plebisciti con cui le popolazioni sottomesse ai ducati dell’Italia settentrionale ed alle legazioni pontificie si sarebbero espressi per l’unificazione.
Nel maggio del 1860 partì la spedizione dei Mille che, con un impresa militare al limite dell’impossibile, determinò la scomparsa del Regno delle due Sicilie.
Nel settembre del 1860 l’abilità diplomatica di Cavour permise di scorporare le Marche e l’Umbria dallo Stato della Chiesa.
In seguito ai plebisciti e all’annessione delle regioni dell’Italia centro-meridionale, venne dichiarata all’Europa e al mondo intero la nascita del Regno d’Italia, dopo tredici secoli in cui la nazione era stata divisa e soggiogata dalle potenze straniere.
L’ultimo personaggio italiano a fregiarsi del titolo di Re d’Italia prima di Vittorio Emanuele II era stato Arduino d’Ivrea, deposto dall’imperatore Enrico II nel 1014.
Questo il bilancio conclusivo delle perdite subite nelle Battaglie di Solferino e San Martino:
Piemontesi | Francesi | Austriaci | Totali | |
Forze in campo | 35.000 | 103.000 | 128.000 | 266.000 |
Morti | 870 | 3.300 | 3.500 | 7.670 |
Feriti | 4.000 | 5.800 | 9.600 | 19.400 |
Morti | 870 | 3.300 | 3.500 | 7.670 |
Dispersi e prigionieri | 770 | 1.500 | 8.600 | 10.870 |
Totali | 5.640 | 10.600 | 21.700 | 37.940 |
La nascita della Croce Rossa
Magenta, Solferino e San Martino furono battaglie particolarmente orribili per l’assenza di soccorso medico.
A San Martino, ad esempio, gli Italiani lamentarono la perdita di 869 morti, 3982 feriti e 774 dispersi e solamente grazie agli ottimi ospedali piemontesi ed ex-asburgici, i soldati deceduti in seguito alle ferite furono poco meno di 400.
Si dice che, dalla parte austriaca, Francesco Giuseppe alla vista del macello di Solferino esclamasse: «Meglio perdere una provincia intera e non rivedere mai più una carneficina del genere!».
Un filantropo ginevrino, Henri Durant, che già a Magenta aveva tentato di organizzare il soccorso ai feriti, al sentimento di orrore seppe unire anche un proposito concreto: dopo soli quattro anni a Ginevra verrà sottoscritta dalle potenze europee una prima convenzione dalla quale sarebbe poi nata la Croce Rossa Internazionale.
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